Dal 4 al 6 aprile 2016 la Facoltà di Filologia dell’Università Complutense di Madrid (UCM) ospita il XIV Congresso della Società internazionale di Linguistica e Filologia italiana (SILFI), sul tema “Acquisizione e didattica dell’italiano”.
Simone Fornara vi partecipa come ospite nella tavola rotonda L’italiano nel mondo e con la relazione La didattica della composizione scritta con le storie divergenti. Percorsi di apprendimento tra lettura, scrittura e revisione del testo nella scuola primaria del Canton Ticino.
Dalla rubrica Narrativa per ragazzi del «Corriere del Ticino» (02.04.2016, p. 32):
Negli ultimi tempi non è raro imbattersi in notizie che associano le narrazioni per ragazzi al problema della censura: libri, film di animazione e persino iniziative che promuovono il piacere di leggere nelle nuove generazioni diventano oggetto di condanna. Il caso più recente è il film Kung Fu Panda 3: in Italia, una gita scolastica con destinazione cinema è stata bloccata da alcuni genitori che ritenevano pericolosa la visione del terzo episodio della saga del panda per i loro pargoli. Il motivo? Leggiamo che cosa ha scritto su Facebook il giornalista Mario Adinolfi, tra i promotori del Family Day e del movimento politico Il Popolo della Famiglia: “Volete capire come si fa il lavaggio del cervello gender ai bambini? Ad esempio con il protagonista di Kung Fu Panda che ha due papà”. Uno biologico e uno adottivo.
Dettaglio non di poco conto, Adinolfi ha però mancato di chiarire qual è la vera storia delle due figure paterne del panda Po: nel primo episodio della saga (2008), Po compariva come figlio adottivo di Mr Ping, un’oca maschio; nel secondo episodio (2011), veniva chiarito che Mr Ping aveva ritrovato Po in una cesta, in quanto i suoi genitori erano stati costretti ad abbandonarlo per salvarlo da morte certa; nel terzo episodio, Po ritrova il suo vero padre, che diventa amico di Mr Ping. Alla faccia del complotto gender! Seguendo la visione di Adinolfi dovremmo dunque ipotizzare che i produttori avessero in previsione di lavare il cervello dei bambini sin dal 2008, cioè quando ancora nessuno parlava di teoria gender come si fa oggi.
La vicenda riporta alla mente quella analoga aperta circa un anno fa dal sindaco di Venezia Luigi Brugnaro, che aveva proscritto una lista di 49 albi illustrati per l’infanzia rei di divulgare la teoria gender nelle scuole del territorio veneziano, scatenando il cieco ossequio di chi lo acclamò come un educatore illuminato senza conoscere i libri oggetto di censura. Tra i quali, ad esempio, spiccava un classico come Piccolo blu e piccolo giallo di Leo Lionni, scritto nel 1959 e lontano anni luce da qualsivoglia contenuto gender vero o presunto.
Inoltre, queste posizioni estremistiche sembrano del tutto ignorare che le storie sono figlie dei tempi in cui vengono narrate. Forse non tutti sanno, ad esempio, che la versione di Cappuccetto Rosso che siamo abituati a raccontare ai bambini è solo una delle centinaia che si sono susseguite nel corso della storia (sulle quali si veda il libro di Yvonne Verdier L’ago e la spilla. Le versioni dimenticate di Cappuccetto Rosso, Bologna, Edizioni Dehoniane). E forse pochi ricordano che la sua prima versione letteraria, scritta nel 1697 da Charles Parrault, raccontava la storia di uno stupro senza lieto fine, giacché Cappuccetto Rosso finiva nuda nel letto del lupo, per non uscirne mai più (furono i Grimm, nel 1812, a introdurre il cacciatore). Scandalizzati? E che dire allora della morale in versi che chiudeva la storia, nella quale la ragazzina veniva additata come la sola responsabile delle sue sventure? Scandalizziamoci pure, ma ai tempi in cui fu scritta, la società non era certo quella di oggi: androcentrica, non si azzardava a concedere alla giovani fanciulle neppure il lusso di uscire dal focolare domestico.
Traduciamo lo scandalo ai giorni nostri: piaccia o no, la società odierna non è popolata solo da famiglie tradizionali; il concetto di famiglia si è aggiornato, e famiglie che un tempo venivano considerate alternative ora non sono più una rarità. Anzi, è proprio la famiglia tradizionale a mostrare crepe profonde e scricchiolii preoccupanti. Che la famiglia “allargata” entri nelle narrazioni (anche se, abbiamo visto, non è questo il caso del panda Po) è quindi del tutto naturale, perché le storie riflettono la vita. A meno che si voglia nascondere la realtà sotto il drappo dell’ipocrisia.
Che cosa significa dunque il riemergere della censura? Una sola cosa, purtroppo, e la storia lo insegna: quando si bruciano libri o pellicole cinematografiche la democrazia vacilla, è in crisi.
Ma c’è un altro aspetto di cui poco si parla e che è grave tanto quanto la censura, se non ancor di più: chi vorrebbe incenerire le narrazioni per ragazzi manifesta in modo lampante la scarsa fiducia nelle nuove generazioni. Pensare che un bambino elabori il proprio concetto di famiglia sulle vicende del panda Po significa non sapere nulla della psicologia infantile. Bisognerebbe spiegare ai censori del terzo millennio che dalle storie il bambino può semmai far suo il senso dell’amore, e che l’amore è indipendente dal genere di chi ne è portatore; e che le storie ci parlano non tanto per il loro intreccio, ma perché riproducono la struttura narrativa della vita; ci parlano perché ci allenano a vivere, attraverso lo schermo protettivo della finzione. Il problema vero non è ciò che il bambino vede nel cartone animato, ma ciò che vede e vive ogni giorno, dentro e fuori le mura di casa. E allora che ci si preoccupi delle famiglie reali, della loro disgregazione, dell’assenza o dell’inconsistenza di certe figure paterne e materne (indipendentemente dal loro genere biologico), dello smaterializzarsi dei rapporti umani nelle reti virtuali in cui siamo immersi.
Ma lasciamo che siano i bambini a giudicare le storie. E, soprattutto, lasciamo che le storie accompagnino le loro vite: togliendo loro le narrazioni finiremmo per privarli di una delle più formidabili palestre di formazione che l’ingegno umano ha prodotto nel corso dei millenni.
Come scrivono i giovani studenti di oggi? Quali sono i nodi di difficoltà ricorrenti della loro scrittura? Che cosa può fare un docente per aiutarli a migliorare?
A questi e altri interrogativi, al fine di aggiornare il quadro teorico di riferimento e di proporre soluzioni didattiche che possano orientare gli interventi degli insegnanti, fornisce alcune risposte il libro Come TIscrivo? La scrittura a scuola tra teoria e didattica, a cura di Luca Cignetti, Silvia Demartini e Simone Fornara (Roma, Aracne, 2016), frutto di una ricerca pluriennale condotta presso il DFA della SUPSI, con la collaborazione dell’Università di Basilea, dell’Ufficio dell’Insegnamento Medio e dell’Ufficio delle Scuole Comunali del Canton Ticino, su sovvenzione del Fondo Nazionale Svizzero per la ricerca scientifica.
La ricerca ha portato alla raccolta di un ampio corpus di testi scritti da allievi di scuola elementare e media del Canton Ticino, che si è rivelato una base estremamente ricca per molteplici livelli di analisi.
Con i contributi di Luca Cignetti, Dario Coviello, Silvia Demartini, Angela Ferrari, Simone Fornara, Marco Guaita, Letizia Lala e Alessandra Moretti Rigamonti, il libro è disponibile per l’acquisto presso il sito della casa editrice Aracne e presso i migliori store online.
Dalla rubrica Letteratura e infanzia del «Corriere del Ticino» (01.03.2016, p. 29):
Recenti statistiche hanno dimostrato che il 2015 è stato, per il libro, l’anno della svolta: dopo un periodo di crisi lungo almeno cinque anni, il mercato editoriale sembra essere uscito dal tunnel. E l’inversione di tendenza, che ha riportato il fatturato dei libri in positivo in tutti i paesi dell’Europa, al traino del Regno Unito, ha riguardato in particolare il libro di carta. Già, perché nel 2015 sono calate le vendite degli ebook e sono salite quelle dei libri tradizionali: il tanto temuto e paventato accantonamento del caro vecchio libro, da sfogliare, toccare, annusare, è una distopia ancora solo ipotetica (per fortuna!). Se si pensa che questo fenomeno è in linea con quanto accaduto negli Stati Uniti, si può essere certi che non si tratti di una bolla di sapone.
E il quadro è ancora più incoraggiante se si considerano i dati che riguardano l’editoria per ragazzi: anche nel periodo di crisi più nera, era il settore più resistente; e oggi, con questi neppure troppo timidi segnali di ripresa, il suo ruolo di locomotiva dell’intero mercato librario è ancora più forte. Sono proprio i giovani, infatti, a leggere di più e a comprare più libri. In un’epoca in cui è fin troppo facile accostare superficialmente il giovane all’uso (e abuso) delle nuove tecnologie, il dato può apparire sorprendente, se non addirittura paradossale. Ma il fatto è chiaro: i più giovani non si sono (ancora) inebetiti con la testa chinata sugli smartphone.
I motivi di questo ritorno dell’esercito dei libri di carta sono certamente molti, alcuni di natura economica e altri di natura culturale. Lasciando ad altre voci più competenti i primi, soffermiamoci su almeno uno dei secondi, in relazione al settore dell’editoria per ragazzi. E allora non possiamo fare a meno di ipotizzare che a questi dati abbiano giovato le numerosissime iniziative di promozione alla lettura che hanno visto e vedono impegnate, quotidianamente, schiere di volenterosi “missionari” della narrazione. Si tratta, generalmente, di persone che non amano alzare la voce (e che per questo risultano invisibili ai più) e che non hanno mai smesso di credere nel valore educativo e democratico delle storie, portandole all’attenzione di bambini ed educatori in ogni contesto possibile. Sono persone che si sono impegnate, per anni, nell’ombra, confidando nel potere evocativo ed emozionale delle pagine di carta. Persone che hanno speso anni della loro vita a seminare, a beneficio delle nuove generazioni.
Come Gianna Vitali, compagna di Roberto Denti e fondatrice, insieme a lui, nel lontano 1972, della prima libreria per ragazzi dell’Europa continentale, la Libreria dei Ragazzi di Milano. A proposito del suo ultimo viaggio, i suoi amici della Libreria dei Ragazzi hanno scritto queste parole: «Alcune persone hanno il dono di non andarsene mai per davvero. Gianna ci ha lasciato un incredibile tesoro di idee, di passione, di parole mai banali, di progetti continui. Che raccoglieremo e che porteremo avanti». Ecco, non bisognerebbe mai dimenticare l’esempio di persone come lei. Per fortuna, guardando al Canton Ticino, possiamo dormire sonni tranquilli: sul nostro territorio, infatti, le librerie dedicate espressamente ai ragazzi sono molte, e tutte agguerrite. E sono gestite da persone competenti e illuminate dalla stessa scintilla che accendeva i cuori dei fondatori della Libreria dei Ragazzi. Una scintilla di cui tutti noi – docenti, educatori, genitori, lettori – dobbiamo prenderci cura. Con impegno costante, e senza inutili clamori.
In più occasioni mi è capitato di mettere in discussione la reale utilità di uno degli esercizi più sfruttati per l’insegnamento della punteggiatura: l’inserimento dei segni in un testo che ne è privo. Gli schedari per la scuola primaria in commercio ne sono pieni, tanto che spesso diventa il fulcro attorno al quale ruota la didattica dell’interpunzione. Questo tipo di esercizio, però, più che insegnare, permette di verificare le competenze dell’allievo e di monitorarne l’evoluzione, ma anche in ciò ha dei limiti: la reale competenza d’uso si vede infatti solo nella composizione (più o meno libera) di un testo, e non nello svolgimento di esercizi. Per questo motivo, ad esempio nel mio libro Alla scoperta della punteggiatura. Proposte didattiche per riflettere sul testo (Roma, Carocci, 2012), ne ho proposto un uso parco, avanzando nel contempo l’idea che, per essere più utile, andrebbe collegato al discorso sulle tipologie testuali, chiedendo agli allievi di inserire i segni in testi appartenenti in modo chiaro a una di esse: in questo modo, l’allievo capisce che a una tipologia testuale precisa corrisponde un uso più o meno vincolato dei segni di punteggiatura. Ad esempio, in un testo regolativo (una ricetta o le istruzioni di un gioco), la posizione dei segni diventa quasi obbligata, mentre in un testo narrativo è un po’ più libera. In questo modo è possibile rivitalizzare un esercizio un po’ vetusto, rendendolo più coerente con i contenuti dei programmi di studio odierni e con i principi che regolano (e che dovrebbero guidare) la didattica dell’italiano del terzo millennio.
Per questo, mi ha fatto enormemente piacere ricevere la lettera di una maestra di scuola primaria, Raffaella del Bono, dell’Istituto Comprensivo M.K. Gandhi di Pontedera (PI), che ha avuto la gentilezza di condividere con me un proposta didattica sulla punteggiatura ispirata a quelle mie pagine e che lei, con grande creatività e passione, ha rielaborato per i suoi allievi. Si tratta di un’affascinante battaglia navale interpuntiva.
Il gioco, che si svolge a coppie (o in due squadre), è molto semplice: si gioca come la battaglia navale classica, solo che invece di colpire e affondare le navi, bisogna indovinare dove sono posizionati e quali sono i segni di punteggiatura all’interno di un testo.
La maestra Raffaella ha avuto anche la pazienza di rispondere ad alcune mie domande: le sue parole permettono di capire meglio lo spirito che anima questa e altre iniziative simili.
Come è nata l’idea di una battaglia navale della punteggiatura?
Io lavoro in una scuola che fa parte della rete delle scuole “Senza Zaino”. Il “Senza Zaino” è un modello che si sta diffondendo da una decina d’anni in molti Istituti (credo che siano circa un centinaio in Italia). Partito dalla Toscana, e precisamente da Lucca, dove il dirigente scolastico Marco Orsi lo ha elaborato, si sta diffondendo in varie regioni. Gli aspetti che caratterizzano questo modello di scuola sono molteplici: l’eliminazione dello zaino è solo il più eclatante. Tra le molte caratteristiche del modello vi è la valorizzazione del lavoro differenziato per favorire l’autonomia degli alunni. In pratica ci sono momenti, durante la settimana, in cui la classe non segue un’attività uguale per tutti, ma i ragazzi lavorano su attività differenti, in autonomia. Per questo gli insegnanti predispongono degli strumenti di lavoro che permettano tali attività e il controllo autonomo dell’errore. Tutti noi siamo quindi impegnati nell’elaborazione di strumenti di lavoro sempre nuovi. Caratteristica di questi strumenti è generalmente quella di essere motivanti e accattivanti. Ci sono scuole dove sono state istituite delle “Fabbriche di strumenti” che gli insegnanti della rete possono visitare e a cui possono ispirarsi per creare il proprio materiale. Non ho mai trovato però nulla che riguardasse la punteggiatura e così qualche giorno fa mi sono messa a pensare a cosa avrei potuto realizzare. Sull’onda di alcuni strumenti che avevo appena realizzato (Gioco dell’oca di verbi e aggettivi, Memory dell’Indicativo), ho pensato a un altro gioco “classico” per bambini, la Battaglia Navale. Il gioco doveva permettere un lavoro in coppia e consentire il controllo autonomo dell’errore. La Battaglia Navale è ovviamente pensata come un momento di esercitazione successivo al percorso collettivo di riflessione sulla punteggiatura.
Quello che vorrei sottolineare è che le idee per una didattica innovativa non nascono da sole, sono spesso frutto di ambienti stimolanti e all’avanguardia.
Quali sono le reazioni degli allievi di fronte a queste attività?
In generale le reazioni a questi stimoli sono sempre molto positive. I bambini sono sempre entusiasti di utilizzare strumenti che rendano la didattica più interessante e meno monotona.
E in termini di apprendimento, che cosa si può dire di attività come queste? Dalla sua esperienza, ha ricavato che servono davvero a qualcosa?
Sì, sono convinta che servano davvero. Vengo da un’esperienza molto lunga nella scuola dell’Infanzia. Lì è pratica comune inserire il gioco, libero o guidato, nella didattica. Il gioco, da sempre, sia in contesti formali che informali, permette l’acquisizione di numerosi apprendimenti. Nella scuola primaria non è sempre facile proporre la pratica ludica nella didattica, ma quando è possibile i bambini sono sicuramente molto più motivati. La motivazione è un grosso motore per imparare.
Un grande grazie, dunque, alla maestra Raffaella: è per merito di persone appassionate come lei che le nuove generazioni possono disporre di occasioni di apprendimento stimolanti e rispettose delle loro straordinarie (e troppo spesso trascurate) capacità.
Scuro Moltamorte e Soggetto Intelligente tornano su YouTube con il secondo video sulla Bianchite: guardatelo, per scoprire come è possibile guarire da questo morbo tipico del terzo millennio!
Scuro Moltamorte, l’inquietante personaggio uscito dal libro La barba magica di Natale di Simone Fornara e Mario Gamba, che si definisce uno “schifosissimo missionario della narrazione”, ha inaugurato il suo canale YouTube con un filmato in cui spiega che cos’è la bianchite.
Per farlo, ha sottoposto un tizio, tale Soggetto Intelligente, a un esperimento scientifico assai pericoloso…
Per saperene di più, non vi resta che guardare il filmato e attendere la puntata successiva.
Il 10 gennaio 2016 Giocare con le parole è andato in onda su Rai Radio 3, nella trasmissione di Giuseppe Antonelli «La lingua batte», grazie alla presenza, come ospite, di Francesco Giudici.
L’intera puntata è stata dedicata ai giochi linguistici, e ha parlato anche il “padre” della ludolinguistica accademica, cioè Anthony Mollica.
Francesco Giudici ha descritto l’impostazione del libro e ha fornito qualche esempio delle attività da noi proposte, impreziosendo il tutto con qualche divertente aneddoto.
Il dettato è una delle pratiche didattiche più resistenti nella scuola primaria di lingua italiana. Oggi, come ieri, la maggior parte dei docenti detta; è un dato di fatto. Ma i pareri circa l’utilità del dettato sono anche molto discordanti. E a volte manca una vera consapevolezza riguardo al suo utilizzo.
Già, a che cosa serve il dettato? Molti pensano che serva a imparare a scrivere; molti altri a imparare l’ortografia; qualcuno pensa che non serva a niente di tutto ciò, e che in fin dei conti sia soltanto una tortura alla quale vengono sottoposti milioni di bambini, senza possibilità di scampo.
E allora, di fronte a questi dubbi, a questi pareri discordanti, la cosa migliore da fare è mettersi a studiare vizi e virtù di questa pratica didattica in modo rigoroso e scientifico, per sgombrare il campo da equivoci e luoghi comuni. Come ha fatto Elisa Farina, insegnante di sostegno nella Scuola primaria che ha conseguito il dottorato in Scienze della Formazione e della Comunicazione presso l’Università degli Studi di Milano-Bicocca, ateneo presso il quale collabora. I risultati della sua lunga ricerca sono illustrati nel volume Il dettato nella scuola primaria. Analisi di una pratica di insegnamento, edito dalla FrancoAngeli nel 2014. Una lettura obbligata per ogni docente di scuola primaria.
Che cosa ci dice Elisa Farina, nel suo lavoro? Tante e utili cose, a partire da ciò che avviene in classe quando si detta: ad esempio, che cosa fanno i bambini, che cosa fanno i docenti, in che modo dettano, in che modo danno “istruzioni” (consapevolmente o inconsapevolmente) agli allievi, e quali effetti hanno queste istruzioni sui bambini stessi. E, di conseguenza, ci dice quali regolazioni andrebbero messe in pratica perché il dettato serva davvero a qualcosa.
La mia opinione è sostanzialmente in linea con quella di Elisa Farina, soprattutto quando chiarisce che, per essere efficace, il dettato non dovrebbe essere inteso e praticato solo in senso tradizionale, ma in una molteplicità di varianti (molte delle quali descritte nelle pagine del suo libro) molto più coinvolgenti e cariche di senso rispetto alla sola che molti conoscono. Qualche esempio? Dettare brani estratti dai libri di lettura, dettare un riassunto delle cose apprese alla fine della lezione, dettare all’adulto (invertendo i ruoli), dettare (perché no?) la lista delle cose da fare, o della spesa, o le regole di un gioco, o gli ingredienti di una ricetta, dettare di corsa, dettare i compiti, dettare domande da trasformare in affermazioni, e tanto altro ancora…
E sono allineato con lei ancor più quando scrive che l’insegnamento dell’ortografia può trovare la sua piena e migliore realizzazione quando è inserito nel più vasto tema dell’apprendimento della lingua scritta, e in particolare nella fase cruciale della revisione del testo, che da sempre è uno dei processi della scrittura più trascurati a scuola, e che invece andrebbe collocato ai primissimi posti delle preoccupazioni dei docenti.
Per saperne di più, ovviamente, non posso che rinviare alla lettura dell’ottimo libro, concludendo che, a mio parere, il dettato ha ancora ragion d’essere nella scuola primaria del terzo millennio, a patto che sia usato in modo consapevole e in forme e modalità diverse da quella tradizionale, il cui ricorso andrebbe limitato a non troppo insistenti momenti di verifica (sempre che non si detti sillabando o comunque con intonazioni che suggeriscano ai bambini i luoghi di difficoltà).
In questo modo, il dettato può diventare un prezioso alleato per l’apprendimento, liberandosi dalla zavorra che si porta dietro da decenni: quella che lo associa al terrore per l’errore commesso. I bambini che imparano a scrivere devono sapere che si può (e si deve anche) sbagliare, perché solo sbagliando si diventa consapevoli delle mille sfaccettature di questa complicata lingua italiana. In fondo, è ciò che ci ha insegnato Gianni Rodari, con la sua teoria dell’errore creativo: l’errore può essere bello (come la torre di Pisa!).
Lunedì 14 dicembre 2015 Simone Fornara è stato ospite di Antonio Bolzani nella trasmissione radiofonica «La consulenza», andata in onda sulla Rete Uno della RSI.
Il tema di discussione è stato di estrema attualità: l’educazione all’uso consapevole delle nuove tecnologie (in particolare dei videogiochi) e il valore della lettura “tradizionale”, trasmessa dalla buone storie (come i grandi classici di ieri e di oggi della letteratura per ragazzi).
Si è parlato di tutto questo e di altro ancora a partire dal libro di Simone Fornara e Mario Gamba Game Over (Ancona, Raffaello Editrice, 2015).