Archivi tag: albi illustrati

Nessuno tocchi Guizzino

guizzinoMercoledì 24 giugno 2015, una circolare del neo sindaco del Comune di Venezia, Luigi Brugnaro, ordina alle scuole «di voler raccogliere i libri “gender”, genitore 1 e genitore 2, consegnati durante l’anno scolastico e prepararli al fine del ritiro che avverrà al più presto da parte di un incaricato». Si tratta di tutti quei libri per bambini che toccano il tema della diversità, e in particolare della diversità di genere (ma per capire meglio che cosa si cela dietro questa fantomatica etichetta di “gender”, genitore 1 e genitore 2, si legga questo breve articolo di Chiara Lalli ). Così facendo, Brugnaro annulla il progetto avviato dalla giunta precedente Orsoni attraverso l’allora delegata ai Diritti civili e alla lotta per le discriminazioni, Camilla Seibezzi, che aveva portato all’inizio del 2014 all’acquisto di oltre mille libri destinati alle scuole materne e d’infanzia del territorio di Venezia (dieci titoli per i nidi, trentanove per le scuola dell’infanzia: si veda qui la descrizione del progetto Leggere senza stereotipi: «un progetto di SCOSSE per creare un archivio bibliografico che proponga visioni dei generi sessuali, e dei relativi ruoli, libere da stereotipi (nelle attività quotidiane, nelle relazioni, in famiglia e nella società)»), per una spesa di circa diecimila euro. La motivazione addotta da Brugnaro, secondo quanto riportano diversi quotidiani, è questa: «sono temi che non devono riguardare i bambini, materie da lasciare ai loro genitori, nella piena libertà di scelte degli adulti».

La decisione del sindaco crea immediatamente reazioni forti e contrastanti: dagli elettori della nuova giunta si solleva una salva di applausi, mentre da chi si occupa di educazione e formazione un po’ meno; anzi, si solleva una nube nera di preoccupazione. Sul primo fronte, i commenti che si leggono su alcuni forum di discussione assumono toni trionfalistici. Eccone qualche esempio (ovviamente tutti nascosti da impenetrabili nickname): «FINALMENTE UN SINDACO, IL SIGNOR LUIGI BRUGNARO, CHE A VENEZIA SI OCCUPA ATTIVAMENTE DELL’EDUCAZIONE DEI NOSTRI FIGLI»; «BRAVISSIMO. A CASA LORO LIBERI DI INSEGNARE QUELLO CHE VOGLIONO MA NELLE SCUOLE PER IL RISPETTO DEI BAMBINI DI TUTTI NON SI DEVE INSEGNARE QUELLO CHE UNA MINORANZA VUOLE FAR DIVENTARE MAGGIORANZA CHE NON ESISTE»; qualcuno ha persino un sussulto di roboante retorica: «Un raggio di luce nella fetida nebbia che circonda la nostra società, devastata dalle sporche ideologie di sinistra».

Dietro questi e altri commenti, bisogna indagare un po’, dunque facciamolo: tra chi per lo meno non si nasconde dietro nickname, una signora dalla punteggiatura incerta scrive «Complimenti al sindaco speriamo che lo seguano in tanti», considerazione che si espone al commento di un’altra utente del blog: «Ma li conoscete questi libri? C’è da morir dal ridere». Infatti. O dal piangere, a ben guardare. Già, perché una delle cose che più agghiaccia di tutta le vicenda è proprio l’ennesima prova dell’ottuso ossequio del popolo di Internet cha approva beceramente senza conoscere ciò di cui si sta parlando. O approva semplicemente per partito (politico) preso: tutto ciò che arriva dall’altra sponda (politica) è materia escrementizia, e dunque è giusto sputarci sopra. A prescindere.

Un’approvazione cieca e ottusa, totalmente a-critica, che mi fa tornare alla mente le recenti parole di Umberto Eco, secondo il quale la rete e i social network danno “il diritto di parola a legioni di imbecilli, i quali prima parlavano solo al bar, dopo due o tre bicchieri di rosso e quindi non danneggiavano la società”. Ammorbidendo un po’ i toni, potremmo dire di ignoranti, nel senso etimologico della parola (ignorante è ‘colui che ignora, che non sa’), dunque senza offese sulla presunta menomazione intellettiva delle legioni citate da Eco. Semplicemente, persone che non sanno. Non sanno di che libri si sta parlando. E la colpa è anche della stampa (online come di carta), che, già nel 2014, ai tempi dell’iniziativa promossa dalla giunta Orsoni (e di nuovo oggi), aveva sintetizzato il contenuto della lista con titoli come “Le fiabe gay entrano a scuola”. Sintesi scorretta da almeno due punti di vista: i libri inseriti nella lista (che potete consultare qui) non sono fiabe (ma albi illustrati “moderni”) e, tra i quarantanove titoli presenti, solo una minoranza (quattro o cinque) trattano effettivamente, in modo più o meno implicito, temi che toccano la sfera dell’omosessualità.

lista_libri_proibitiDirò di più: chi si intende di letteratura per l’infanzia, e nella fattispecie di albi illustrati, sa bene che catalogare tutti questi titoli come “fiabe gay” non soltanto è una forzatura, ma, a ben guardare, una colossale falsità (imbecillità, direbbe Eco): tra i quarantanove titoli della lista troviamo alcuni classici di questo genere narrativo, come Piccolo blu e piccolo giallo di Leo Lionni (scritto nel 1959!): provate a leggerlo ai bambini e vedrete se non parleranno di una storia che celebra il valore dell’amicizia (e non certo di famiglie “diverse” o di omosessualità); o come Dov’è la mia mamma di Julia Donaldson, la storia di una scimmietta che non trova più la sua mamma e la cerca in lungo e in largo per tutta la giungla, per poi ritrovarla dopo un passaggio tra le braccia del papà (racconto “gender”? ma non è, in fondo, la stessa storia raccontata da Edmondo De Amicis in Cuore, nell’episodio Dagli Appennini alle Ande? cioè da un libro tra i più usati nell’educazione scolastica di stampo tradizionale, e solo di recente uscito un po’ dalle nostre aule?); o come Guizzino, ancora di Leo Lionni, la storia di un pesciolino nero che, dopo essersi salvato dall’attacco di un grande pesce che si porta via tutti i suoi simili rossi, raggiunge un’altra comunità di pesciolini rossi e insegna loro a nuotare tutti insieme, disponendosi a forma di enorme pesce, per potersi salvare dagli attacchi dei tonni (anche qui chiedete ai bambini: vi diranno una morale del tipo “l’unione fa la forza”; ma probabilmente la storia dà fastidio a qualche adulto per il colore rosso dei pesci “comunisti”, giacché di cenni “gender” non se ne vede manco l’ombra).

E l’elenco di esempi potrebbe continuare (davvero, non scherzo: per ogni titolo si potrebbe fare un discorso simile), ma penso che anche questi pochi siano sufficienti a dimostrare che di lista di “favole gay” non si può proprio parlare. E dovrebbero anche dimostrare che la decisione di privare le scuole di questi libri è un atto da regime totalitario, da censura, da indice dei libri proibiti; dunque un reato contro la libertà di espressione e di pensiero, perpetrato da chi con ogni probabilità non ha mai aperto questi libri né sentito i bambini discutere in modo critico (nel senso di “costruttivo” e consapevole) dopo aver ascoltato o letto uno di questi albi. E i genitori la smettano di annuire meccanicamente senza sapere di che cosa si sta parlando!

Qualche considerazione conclusiva, a partire da una domanda: che cosa succede togliendo questi libri dalle scuole? Succede che i bambini perderanno un’occasione di vera educazione; perderanno la ghiotta opportunità di confrontarsi con temi e storie che innescano la riflessione, portando le loro giovani menti non verso l’omologazione culturale, ma verso la consapevolezza. In questo caso, anche verso la consapevolezza della diversità; ma, badate bene, della diversità in senso lato: non solo di gender, ma di abilità fisiche, di gusti e preferenze personali, di naturali inclinazioni verso una o l’altra passione, di comportamento, di colore della pelle e tanto altro ancora. Decisioni come queste sono tipiche di epoche in cui chi governa mira non tanto a costruire teste che pensano da sole, ma teste che annuiscono senza pensare, accettando il pensiero dominante e fuggendo da ogni “deviazione”. Decisioni come queste ignorano che i bambini nascono scevri dai pregiudizi derivanti dagli stereotipi e dai luoghi comuni; pregiudizi che vengono invece imposti dalla società, sin dai primi anni di vita. Un bambino che a casa sente frasi del tipo “i gay sono malati” (di solito, per la verità, espressa con parole forti come “finocchi” o “froci” o altre simili) è un bambino destinato a ripetere da grande le stesse cose (così come ripeterà analoghi pre-giudizi sugli immigrati, per citare un tema assai attuale). Prima, però, è un bambino destinato a ghettizzare un suo coetaneo che gli adulti vorrebbero etichettare come appartenente a quella fumosa categoria del “diverso”, ignorando che le classi degli asili e delle scuole non sono più quelle di qualche decennio fa: tra i nostri allievi, giusto per fare qualche esempio, ci sono figli di genitori divorziati, di genitori single, di genitori che li hanno adottati, figli di immigrati che non credono nello stesso Dio dei cattolici ecc. Imponendo l’uso di sole storie in linea con la “tradizione” (faccio fatica a capire quali sono: forse quelle che si usavano un secolo fa, quelle che insegnavano con toni moralistici che a comportarsi in modo “divergente” si finiva molto male?), non si fa altro che inoculare nel cuore dei giovani la convinzione ottusa che il nemico è chi non è come noi, costruendo dunque l’avversione per il “diverso” (e, forse, la categoria stessa della “diversità”); e di qui agli estremismi il passo è ahimè breve.

Certo, alcuni vogliono proprio che succeda così. Ma non la chiamino, per favore, “educazione”; e non dicano che la scuola deve lasciare fare alle famiglie: la più importante delle istituzioni (e, purtroppo, considerando che cosa succede in Italia, la più bistrattata fra tutte, anche dalla politica) non può venire meno al dovere di educare e di dare la possibilità ai bambini di elaborare un proprio pensiero. Nel migliore dei casi, demandare alle famiglie il compito di affrontare temi delicati potrebbe funzionare nei nuclei familiari dove la discussione critica è di casa, dove i libri non sono solo un arredo (o una mancanza); ma oggi le famiglie che rispondono a queste caratteristiche sono esse stesse un’eccezione, una “diversità” nel mucchio. Dunque ben vengano i libri portati dalla scuola, scelti con attenzione da esperti e proposti con discernimento da docenti che sanno fare il loro mestiere e che conoscono gli allievi che hanno di fronte.

Concludo questo lungo intervento con una proposta, peraltro già avanzata da qualcuno sui social network o in rete: dal momento che la lista dei libri messi all’indice è indubbiamente di grande valore, la si può prendere come una ricca lista della spesa. Ma non chiamatela lista di favole gay, per favore. Comprateli, questi libri, o almeno andate in libreria o in biblioteca a sfogliarli. Giusto per capire di che cosa si sta parlando, se non li conoscete. Oppure, se siete educatori, leggeteli pubblicamente. Contro il silenzio, contro l’ignoranza, contro le teste che annuiscono senza sapere. Perché di Guizzino non si può e non si deve avere paura.

Alla scoperta delle lettere con Bruno Munari

IMG_1630_ridTra i tanti libri di Bruno Munari che meritano di essere riscoperti o riportati sui banchi di scuola o sui tavoli dell’asilo, un posto di tutto rilievo spetta senza dubbio al suo Alfabetiere, uno snello libretto che ha una lunga storia editoriale: pubblicato per la prima volta nel 1960 dalla Einaudi, riproposto nel 1972 nella collana Tanti Bambini, è uscito infine per Corraini di Modena nel 1998, che lo ha ristampato per l’ottava volta nel 2014. Da oltre cinquant’anni, dunque, le lettere di Bruno Munari e le sue strampalate filastrocche (fatte di parole che iniziano con la lettera di volta in volta illustrata) accompagnano i piccoli lettori alla scoperta dell’alfabeto.

Sugli utilizzi didattici cui si presta meravigliosamente questo libro non c’è modo migliore che ripercorrere le parole stesse dell’autore nella premessa scritta a mo’ di lettera per i genitori (ma il suggerimento è di leggerla per intero, aprendo la copertina del volumetto). Una premessa che a ogni riga lascia trapelare non solo la grande passione di Munari per il suo mestiere di artista-scrittore, ma anche la perizia pedagogica con la quale pensava e realizzava le sue opere. Nulla è lasciato al caso, dalla sequenza con cui sono proposte le lettere, che seguono quello che negli anni Sessanta era ritenuto l’ordine di apprendimento (secondo il grado di difficoltà); fino alla scelta dei caratteri, ritagliati da giornali e riviste allo scopo di mostrare al bambino che una stessa lettera può assumere infinite forme diverse, superando così i limiti degli abbecedari tradizionali; passando per la selezione delle parole che rendono così efficaci e musicali le filastrocche, studiate proprio per avvicinare gli orecchi bambini alla sonorità della nostra lingua.

E ancora Munari dà le dritte giuste per mettersi al lavoro, poiché il suo Alfabetiere è un libro aperto, che il giovane esploratore dell’alfabeto può completare a piacimento:

il bambino può intervenire continuando a incollare nelle pagine le lettere dell’alfabeto che avrà prima scelto e ritagliato da vecchie riviste, così come io ho cominciato a modo di esempio. Sarà per lui come andare a caccia di insetti tra l’erba di un prato facendo attenzione di non confondere formiche con cavallette.

I libri e i non-libri di Bruno Munari

munari_prelibriBruno Munari (Milano 1907-1998) è conosciuto soprattutto come artista e designer, uno dei più noti e innovativi nella storia del design italiano (e non solo). La sua produzione artistica ed editoriale è davvero sterminata e comprende anche numerosi libri rivolti ai bambini, nella quasi totalità dei casi “fuori dagli schemi”. Solo pochi di essi, infatti, presentano storie per così dire tradizionali. Li possiamo leggere grazie alle Edizioni Corraini di Modena, che continua a stamparli e ristamparli, con una sempre meritevole attenzione alla qualità del prodotto editoriale.

Alcuni esempi saranno sufficienti per solleticare la curiosità di un docente che voglia proporre stimoli nuovi e molto creativi ai propri allievi. Ad esempio, Munari era solito sperimentare con i materiali, per rendere il libro un’esperienza tattile, prima ancora che di lettura, al fine ultimo di avvicinare i bambini più piccoli al fascino del libro come oggetto da toccare, manipolare e – perché no? – annusare. Rientrano in questo filone delle sue sperimentazioni artistiche i libri illeggibili (Libro illeggibile MN 1, Modena, Corraini, 2009, prima ed. 1984) o i pre-libri (I prelibri, Modena, Corraini, 2011 , prima ed. 1980), oggetti che hanno solo la forma del libro, ma che sono costruiti per lo più facendo a meno della parola scritta e ricorrendo solo a materiali diversi per assemblare le pagine (cartoncini, carta velina, legno, stoffa ecc.). Oggetti adatti anche ai più piccoli, che non mancheranno di stupirsi e di meravigliarsi, toccando le pagine e “studiando” la fisicità del libro.

munari_nebbiaMa anche i libri più tradizionali di Munari non rinunciano al gioco di colori, spessori e trasparenze, che si alternano alla parola scritta per costituire delle vere e proprie opere d’arte, da guardare e toccare, oltre che da leggere. è il caso di Nella nebbia di Milano (Modena, Corraini, 2010, prima ed. 1968), in cui il lettore-spettatore è portato a percorrere la città scoprendone i particolari attraverso un viaggio tra pagine semitrasparenti, che rendono alla perfezione l’indefinitezza nella quale la nebbia nasconde le cose. E tra queste semitrasparenze e semiopacità, figure, colori e contorni emergono pian piano, fino a scoprire un circo e a svelare la vita che scorre al suo interno, per poi far ripiombare nell’indefinitezza della nebbia, quando si torna all’esterno. O è il caso di Nella notte buia (Modena, Corraini, 2009, prima ed. 1959), un libro stampato con inchiostro blu scuro su carta nera, a rendere l’oscurità e la paura della notte, nel quale il lettore, seguendo il lumicino giallo di una lucciola, giunge a scoprire la freschezza del nuovo giorno, svelata anch’essa da pagine semitrasparenti; per poi inoltrarsi nelle profondità di una grotta, nella quale scorre un fiume sotterraneo; per infine emergere al calare di una nuova notte, sempre con la presenza luminosa delle lucciole a segnare la via. Libri per stupire, appunto. Per meravigliarsi, pur nell’assenza totale di una vera narrazione (giusto che il docente lo sappia: non sono libri che servono per imparare la grammatica delle storie, ma per stimolare curiosità e fantasia, per favorire l’adozione di uno sguardo diverso sul mondo e sulle cose).

munari_capp_verdeVi sono, poi, altre prove di Munari che coniugano l’aspetto sperimentale con la narrazione vera e propria. Per concludere questa rapida e, per forza di cose, sommaria presentazione, ci soffermeremo infatti sulla trilogia illustrata dei Cappuccetti (se così la possiamo chiamare): Cappucetto Verde (Modena, Corraini, 2012, prima ed. 1972), Cappuccetto Giallo (Modena, Corraini, 2011, prima ed. 1972), Cappuccetto Bianco (Modena, Corraini, 2010, prima ed. 1981). Tre riscritture moderne della fiaba classica per eccellenza che si collocano a tre livelli diversi di lontananza dall’originale, e che sono accomunate dalla centralità dei colori. Cappuccetto Verde è forse la storia meno “stravolgente”: racconta di una bambina che si inoltra nel bosco e che incontra un lupo vero, ma viene aiutata dalla sua compagna Verdocchia (una rana) e dalle sue amiche (d’altronde il lupo, come un vero lupo, non si avventura fuori dal bosco perché ha paura di essere visto). Cappuccetto Giallo sposta l’ambientazione in città, e il lupo assume i tratti inquietanti dell’uomo che vorrebbe portare la bambina a fare un giretto, ma di nuovo l’intervento della natura (i canarini gialli) permette alla bambina di arrivare sana e salva dalla nonna. Cappuccetto Bianco è invece la più marcatamente sperimentale delle tre: le pagine sono interamente bianche, con i testi a mo’ di didascalia nella parte bassa, senza illustrazioni. Non si vede nulla, perché tutto è coperto da una spessa e bianca coltre di neve. Solo in una pagina si vedono gli occhi di Cappuccetto Bianco, che però spariscono subito. Non si vede neppure il lupo, che d’altronde è costretto a mangiare riso in bianco perché ha fatto un’indigestione di nonne. E c’è pure Biancaneve… Insomma, Munari si diverte e fa divertire il lettore, lo provoca, lo coinvolge nelle sue a tratti folli visioni. La trilogia di Cappuccetto offre su un piatto d’argento lo spunto per nuove riscritture, per nuove avventure nella fantasia: le stesse che pervadono tutte le pagine e l’opera di un grande autore.

Mai sazi del piccolo bruco

carle_piccolo-brucoLo scrittore-illustratore americano Eric Carle (classe 1929) è senza dubbio uno degli autori di maggior successo a livello internazionale per ciò che riguarda gli albi illustrati. Con i suoi libri, ha superato gli 80 milioni di copie vendute nel mondo, gran parte delle quali proprio grazie all’opera al centro di questa proposta.

Ciò che fa dei suoi albi un vincente prodotto di qualità è la felice combinazione di arte grafico-pittorica e testo. In generale, le sue storie sono semplici, narrativamente lineari, di certo non divergenti (al contrario dunque delle precedenti provocatorie proposte). Insomma, i suoi libri sono adattissimi a un pubblico anche molto giovane, di scuola dell’infanzia.

Dicevamo della sua arte: per capire bene in che cosa consiste l’unicità del suo stile, non c’è niente di meglio che vederlo all’opera proprio mentre compone, attraverso un processo di pittura, disegno e collage, il protagonista del libro qui presentato, Il piccolo bruco Maisazio (Mondadori, 1989; ed. originale 1969), ciò che è possibile fare guardando il filmato presente a questo link.

La storia raccontata in questo albo classico è molto semplice, di una semplicità però da tenere ben distinta dalla banalità: la vita del piccolo bruco, che si aggira affamato nel suo mondo colorato, mangia a sazietà fino a ingigantirsi, racchiudersi nel suo bozzolo e infine trasformarsi in farfalla, non mancherà di stupire e istruire gli occhi dei giovani lettori-ascoltatori, che rimarranno affascinati dalle soluzioni inventate dall’autore. Carle, infatti, gioca con la sua abilità di creare forme da ben assemblati collage di carta velina pitturata e sapientemente intagliata e incollata; gioca con pagine di diverso formato, forate qui e là dai piccoli buchi lasciati dietro di sé dal bruco Maisazio, che assaggia o divora tutto ciò che incontra; gioca con i lettori, e li attira a sé anche grazie all’aiuto del testo, sempre chiaro ed essenziale.

Insomma, un libro da provare davvero in una sezione di scuola dell’infanzia, per il piacere di leggere, raccontare e – perché no – per quello di capire meglio la natura che ci circonda; e da non trascurare neppure negli anni successivi, magari invogliando i bambini a produrre un oggetto-libro simile a questo, ma con altri colori e un altro protagonista.

Quando i dettagli fanno la differenza

buongiorno-dottore_37477Una caratteristica comune a tutti gli albi illustrati ben riusciti (tranne il caso limite dei silent books, cioè degli albi solo illustrati, senza parole) è il rapporto di interdipendenza tra parole e immagini. Le due dimensioni iconica e verbale, infatti, se l’albo è composto con equilibrio, dialogano tra di loro formando un tutt’uno inscindibile. E, per ottenere questo effetto, l’attenzione ai minimi dettagli si rivela un fattore decisivo.

È proprio il caso degli albi illustrati di Matthieu Maudet, autore-illustratore che lavora sia da solo, sia in coppia con altri scrittori, e sempre con risultati di tutto rilievo. Come per i due libri cartonati Buongiorno postino e Buongiorno dottore, entrambi pubblicati in traduzione italiana da Babalibri e con il testo di Michael Escoffier.

Prenderemo in esame il più divergente dei due, cioè Buongiorno dottore (2010), illustrato da una storia che nelle prime pagine e quasi fino alla fine sembra essere assolutamente normale, cioè per nulla divergente, ma nei canoni delle storie tranquillizzanti fatte apposta per intrattenere i lettori più piccoli. Anche la veste tipografica dell’albo, formato quadrato e pagine spesse di cartone rigido, fa pensare ai libri destinati a bambini che ancora non sanno leggere, e che con il libro hanno un rapporto fisico fatto di mordicchiamenti e lanci improvvisi (dell’oggetto-libro).

Ma, osservandolo e leggendolo (o ascoltandolo) con molta attenzione, ci si accorge che qualcosa non torna. Qualche dettaglio stona con la serenità apparente della situazione (e anche con l’aspetto innocente e colorato del libro): siamo in una sala d’attesa di uno studio medico, con sei pazienti (tutti animali, ma di diverse stazze) che aspettano il proprio turno leggendo riviste e giornali o sonnecchiando. Il dottore interviene con pacatezza e delicatezza, risolvendo i problemi di tutti (un bastoncino di lecca-lecca incastrato tra i denti di un coccodrillo, un chewingum infilato a ostruire la proboscide di un elefante) senza generare dolore. Al termine di ogni visita, il dottore sporge la testa nella sala d’attesa e chiama: «Il prossimo!». Solo che i conti non tornano: i pazienti ancora in attesa sono sempre uno in meno di quanti ce ne dovrebbero essere. Fino a quando il prossimo è il lupo. E allora si capisce tutto.

Che fine hanno fatto il coniglio e il papero? E che fine fa il dottore? E quella pecora, ultima rimasta, che fine farà?

Insomma, la divergenza emerge in modo eclatante nelle ultime pagine, ma – rileggendo a ritroso il tutto e stando attenti ai minimi dettagli – si può scoprire in realtà che qualche segnale è presente sin dalla primissima pagina dell’albo, quella che ritrae i sei pazienti in placida e tranquilla attesa. O meglio, i cinque più uno. Cioè il lupo, che, con la lingua penzoloni, finge di leggere il quotidiano che tiene fra le zampe, mentre guarda con appetito il coniglio che gli sta proprio accanto. E, se si osserva ancora meglio, si nota che sulla prima pagina del quotidiano c’è una foto che raffigura il ricercato numero uno, che ha proprio le fattezze del… lupo!

Da qui in poi i dettagli si moltiplicano, ma il succo resta lo stesso: un libro che costruisce la sua divergenza sul microscopico, e che pare fatto apposta per sviluppare la capacità di osservazione dei giovani lettori. Già la prima pagina è un piccolo capolavoro da sfruttare in senso didattico, una miniera di spunti per chiedere ai bambini di formulare ipotesi sul contenuto della storia: che cosa potrà succedere a questi sei animali?

E sono proprio le quattro immagini a doppia pagina, cioè tutte quelle che illustrano la sala d’attesa e i mutamenti che la caratterizzano dall’inizio alla fine, a costituire l’ossatura della storia, tanto che si potrebbero tranquillamente estrapolare dal libro, eliminando tutte le altre, e la storia resterebbe invariata. Anzi, si potrebbero addirittura presentare ai bambini, chiedendo a loro di inventare le pagine “di contorno”, per poi confrontarle con quelle originali. Ma gli spunti didattici non si esauriscono certo qui.

Insomma, una delle migliori dimostrazioni che l’albo illustrato può diventare una vera opera d’arte, grazie a un sapiente dosaggio di immagini, parole e… dettagli.

Non sempre le cose vanno a finire bene

Jon Klassen's This Is Not My HatUno degli autori emergenti nel panorama degli albi illustrati è sicuramente il giovane canadese Jon Klassen, che inizia a essere ben conosciuto tra gli addetti ai lavori, anche in virtù di alcuni importanti premi e riconoscimenti che ha ottenuto con i suoi lavori. Senza ombra di dubbio, si tratta di un autore ben fuori dagli schemi: uno che non ha avuto paura di provocare, di sovvertire l’andamento consueto e atteso delle storie per bambini, non solo per il gusto di farlo, ma per suscitare una reazione nel lettore. E c’è riuscito benissimo.

Il suo libro al momento più noto e premiato (ha ottenuto proprio nel 2013 la Caldecott Medal, uno dei più ambiti premi per gli autori di albi illustrati pubblicati in inglese e negli Stati Uniti) è This Is Not My Hat (ed. originale 2012), tradotto e pubblicato in italiano dalla ZOOlibri con il titolo Questo non è il mio cappello (2013).

È una storia del tutto particolare, quella di un pesciolino che ruba il cappello a un pescione, pensando di farla franca andando a rifugiarsi tra le alghe più fitte. Ma, nella vita, le cose non vanno sempre come si spera e come ci si aspetta: il pesciolino si illude che il pescione non si accorga del furto e che, pur accorgendosi, non perda tempo nella ricerca del piccolo ladro; si illude fidandosi del silenzio di quel piccolo granchio che l’ha visto passare con il cappello rubato; e si illude di essere al sicuro, tra le alghe più fitte. Già, si illude, perché il pescione l’ha visto e l’ha inseguito e… il libro si conclude con l’immagine del pesce enorme che torna indietro, con il cappello di nuovo in testa, e con l’ultima inquietante immagine, che mostra le alghe fitte desolate e immobili, senza presenze vive al loro interno. Insomma, anche se non si dice esplicitamente, ci sono tutti gli indizi per supporre che il pesciolino abbia fatto una brutta fine. Un bambino che ascolta la lettura di questo libro non esiterà a dirvi che il pesciolino “è dentro la pancia del pescione”, statene pur certi! Ed è proprio il finale che sconvolge, che sorprende, che non ci si aspetterebbe in un libro per bambini; è però – allo stesso tempo – il finale che contribuisce in modo decisivo a fare di Questo non è il mio cappello un grande libro, una grande storia: nella vita, quando si commette qualche azione cattiva si può anche pagare un caro prezzo; non è detto che si venga sempre perdonati, che la si passi liscia e che ci sia redenzione. A volte va a finire male, ecco tutto.

Come per il libro Not Now, Bernard, ci troviamo di fronte a una proposta forte, scioccante, che però apre universi didattici e prospettive di straordinario interesse: esattamente come con il libro di McKee, anche con Questo non è il mio cappello bisogna evitare di lasciare il giovane lettore da solo con la storia: bisogna parlarne, discuterne, capirla, per poi arrivare a riraccontarla o a riscriverla. Qualche esempio? Be’, per la discussione è indispensabile lavorare sui personaggi e sui loro comportamenti, per cercare di inquadrarli dal punto di vista morale: chi si è comportato peggio? il pesciolino, che ha rubato il cappello ed è fuggito? il pescione, che si è ripreso il cappello con la forza? o il granchietto, che ha fatto la spia? E poi si può virare sull’autobiografico (racconta di quella volta in cui ti sei sentito come il pesciolino/il pescione/il granchietto) e sul riracconto/riscrittura (immaginiamo che il pescione non abbia mangiato il pesciolino: come può essersi ripreso il cappello senza ricorrere alla forza?). Insomma, gli spunti sono davvero tanti, e tutti stimolanti, come solo una storia “divergente” può far sorgere.

Ultima cosa: Questo non è il mio cappello è il secondo libro su animali e cappelli scritto da Jon Klassen: il primo si intitola Voglio il mio cappello! (ZOOlibri), ed è la storia di un orso al quale è stato sottratto indebitamente il proprio cappellino. Forse potete immaginarvi che cosa succede a quel piccolo coniglio che se ne è impossessato…

Se papà e mamma non ti danno retta…

chiedilo-alla-mamma-chiedilo-al-papa-224345… allora puoi davvero fare ciò che ti pare! È questo, in soldoni, il succo della storia di oggi: dopo aver parlato di Not now, Bernard di David McKee, che affrontava in modo drammatico il tema del non-ascolto da parte dei genitori verso le richieste di attenzione del figlio, è la volta di un albo illustrato che tocca lo stesso tema ma in modo più leggero, senza esiti tragici (nessuno viene mangiato da mostri terribili, insomma). Si tratta di Chiedilo alla mamma Chiedilo al papà, scritto da Cristina Petit e con i disegni di AntonGionata Ferrari, pubblicato da una casa editrice, Valentina Edizioni (2015), che alla recente Fiera del Libro per ragazzi di Bologna si è segnalata per più di una interessante novità.

L’intreccio è semplicissimo: il piccolo Martino, in una domenica di pioggia, è a casa con i suoi genitori, impegnati entrambi in svariate occupazioni tra il lavorativo e il domestico, e ha il problema (molto serio) di allontanare il pericolo della noia, sempre in agguato in giorni uggiosi come questo. Allora inizia a formulare una serie di richieste prima a papà («Papà, posso travestirmi da Zorro?»), poi, avendo ricevuto come risposta un laconico «Chiedi alla mamma», a mamma («Mamma, posso travestirmi da Zorro?»); solo che anche mamma gli risponde allo stesso modo («Chiedilo al papà»); dunque Martino, non avendo ricevuto divieti espliciti, si sente autorizzato a mettere in atto il suo proposito, cosa che fa prontamente.

Se la questione fosse solo il travestimento da Zorro, non sarebbe un gran male: il fatto è che, però, il travestimento da Zorro è solo la prima di una lunga serie di richieste, in un crescendo di “birbonaggine”, a ciascuna delle quali il bambino riceve sempre le stesse risposte (che danno il titolo al libro).

Ciò che rende divertente e memorabile la vicenda è proprio la catena di richieste: quella nuova, infatti, si aggancia al resoconto di tutte le precedenti, dando luogo a una struttura a incastro che ricorda il fortunato modello reso celebre dalla canzone di Angelo Branduardi Alla fiera dell’Est. Verso la fine, ad esempio, Martino dice:

Papà, mentre pitturo le piastrelle del bagno ognuna di un colore diverso così la stanza è più allegra, faccio Tarzan con la tenda della doccia, faccio il bagno e mangio un chilo di pop corn vedendo i cartoni violenti che non posso vedere mai, nudo con il mantello, la maschera e la spada e lavo Bernardo [il cane] che è sporco, posso tagliargli il pelo con il tuo rasoio elettrico?

Manco a dirlo, il padre lo rimanda dalla mamma, e viceversa. Fino a quando un preoccupante silenzio “risveglia” l’attenzione dei genitori, che – dopo un rapido litigio fatto di accuse reciproche – finalmente scoprono le malefatte del pargolo e, di riflesso, prendono consapevolezza delle proprie.

Il messaggio finale è chiaro ed esplicito: «Solo con il no una cosa non si può fare, vero mamma, vero papà?»; come dire: le regole ci vogliono, e non bisogna tirarsi indietro quando è il momento di porle.

Al di là dell’esplicitazione della “morale” della storia, la struttura assai ben congegnata dell’albo lo rende una lettura ad alta voce assai divertente, per affrontare appunto in modo simpatico un tema a volte scottante: quello delle regole e dei comportamenti irresponsabili che a volte accomunano genitori e figli. La sua struttura a catena, poi, pare fatta apposta per inventare nuove storie a partire dal modello: un bel regalo per mamme a papà del terzo millennio da confezionare in classe, giusto per ricordare di tenere sempre alta la guardia.

Dalla parte dei bambini: il dramma di non essere ascoltati

mckee_non_now_bernardChi l’ha detto che ai bambini bisogna sempre leggere testi rasserenanti, divertenti e “leggeri”? Anche i bambini hanno i loro problemi, e non sono solo questioni di giocattoli e di cartoni animati: molti di loro sono turbati da pensieri che li inquietano, che minano la loro naturale spensieratezza. E a volte, per farli riflettere, per far sì che questi problemi possano essere meglio definiti, e magari risolti, può essere opportuno che i bambini si trovino confrontati con essi, in modo “provocatorio”, cioè per “tirare fuori la loro voce”. A volte, infatti, basta parlare dei problemi per iniziare a superarli.

E uno dei problemi più frequenti, per ogni bambino, è il rapporto con i genitori: sereno, a volte, ma molto spesso problematico, fonte di conflitti e di turbamenti, quando non di dolore e terrore. E ci sono storie che affrontano proprio questo tema, in modo anche assai diverso l’una dall’altra: il libro di cui parleremo è un testo che lo fa in maniera assai “divergente”, dura, per certi versi scioccante, ed è privo di lieto fine. Si tratta di un bellissimo albo illustrato di David McKee, l’inventore di Elmer, l’elefante variopinto, uno dei suoi personaggi più noti. Si intitola Not Now, Bernard (prima ed. 1980; edizione recensita Andersen Press, 2012), che tradotto in italiano suona Non ora, Bernardo, anche se l’edizione italiana (ormai non più disponibile) venne stampata dalla Emme Edizioni di Rosellina Archinto con il titolo di Non rompere, Giovanni, scelta ancora più provocatoria e fuori dagli schemi.

La storia è molto semplice: un bambino, Bernardo, cerca di attirare l’attenzione dei suoi genitori, ma inutilmente, perché loro, presi in occupazioni domestiche banali, ogni volta gli rispondono con il “ritornello” del titolo: “non ora, Bernardo”. Il bambino allora si reca in giardino, dove c’è un minaccioso mostro che, senza indugi, se lo mangia, restando poi soddisfatto a contemplare una sua scarpina. Il mostro, poi, entra in casa e minaccia madre e padre, con il medesimo risultato che aveva ottenuto, con loro, il bambino: “non ora, Bernardo”. I genitori neppure si accorgono che il loro piccolo Bernardo è stato sostituito da un mostro; addirittura, la mamma giunge al punto di mettere a letto il mostro, dandogli la buonanotte con il consueto “ritornello”. E così finisce la storia. Niente lieto fine, niente riconciliazione, ma uno strappo netto, definitivo, irrimediabile.

E perché proporre una lettura del genere a un bambino? Per metterla in discussione, ovviamente. Per parlare tutti insieme di un problema che più o meno tutti i bambini si trovano ogni tanto ad affrontare: quello dei genitori che “non hanno tempo”, presi nelle loro occupazioni e persi nei loro pensieri. La discussione diventa dunque un modo per capire meglio il punto di vista altrui (dei genitori e del bambino), al fine di esorcizzare una delle più grandi paure: quella di non essere ascoltati, fino a non esistere. Per arrivare, magari, a una riscrittura o a una rivisitazione della storia di partenza, a partire da stimoli come “Ma siamo proprio sicuri che il mostro abbia mangiato Bernardo? Non è che per caso lui è fuggito, e ha perso una scarpina?”; oppure “Proviamo a inventare un nuovo finale a questa storia, un finale in cui ci sia ancora Bernardo”; oppure ancora “Immaginiamo che cosa sarebbe potuto succedere se il papà o la mamma di Bernardo lo avessero ascoltato, invece di dirgli non ora, Bernardo”. Possiamo arrivare anche alla rappresentazione teatrale, basata su un copione ispirato alla storia, in cui i bambini impersonano bambini e genitori che non li ascoltano.

Insomma, l’importante è non lasciare il bambino da solo con questa  lettura, altrimenti rischieremmo di comportarci più o meno come i genitori della storia: il libro deve essere uno spunto per riflettere, per approfondire, per poi andare oltre.

I lupi belli, furbi e forti (e illusi!) di Mario Ramos

ramos_sono_io_forteNel 2012 se ne sono andati due grandi autori di albi illustrati, l’americano Maurice Sendak, di cui abbiamo parlato a proposito del suo capolavoro Nel paese dei mostri selvaggi, e il belga Mario Ramos (1958-2012). Ramos se ne è andato un po’ troppo presto, ma ha avuto comunque il tempo di scrivere circa trenta libri per bambini, una buon parte dei quali è disponibile in italiano grazie alla “solita” Babalibri, specializzata nella traduzione e pubblicazione di questo genere di narrativa che arriva dall’estero.

Il tratto di Ramos è inconfondibile: molto colorato, vivace, e al contempo semplice e diretto. I suoi protagonisti, prevalentemente lupi più o meno giovani, fanno quasi sempre una brutta figura: vogliono sembrare cattivi, forti, belli e furbi, ma non ci riescono mai del tutto, perché vanno incontro a inevitabili e meritate delusioni e disillusioni.

Come esempio della sua opera si può scegliere Sono io il più forte (Babalibri, 2002), la storia di un grande lupo cattivo che, dopo aver mangiato a sazietà, si aggira per il bosco allo scopo di sentirsi appunto dire che è lui il più forte, beandosi poi tra sé e sé per il fatto che ciò avvenga puntualmente. E come potrebbero negarlo un piccolo coniglio dalle orecchie lunghissime, la piccola Cappuccetto Rosso, i piccoli Tre Porcellini, e gli altrettanto piccoli Sette Nani? Ma l’inatteso è dietro l’angolo (o dietro il prossimo albero): una specie di piccolo rospo che si permette di contrastare le attese del lupo cattivo e presuntuoso. E lo fa perché dietro di lui c’è la sua mamma. E chi è la sua mamma? Be’, guardate bene la copertina del libro, a proposito della quale Mario Ramos diceva: «Ce que le loup ne sait pas c’est que la maman se trouve déjà sur la couverture… oui, oui, regardez-bien, juste derrière le loup.»

Perché proporre in classe i libri di Ramos? Perché sono storie divertenti, ben scritte, con disegni d’effetto, simpatici, colorati, con personaggi molto ben riusciti, e perché veicolano messaggi molto diretti in modo efficace. Insegnamenti morali, sì, ma non moraleggianti, cosa che risulterebbe scontata e banale. E poi perché si prestano a una miriade di utilizzi diversi, dall’oralità alla scrittura, passando per l’avvicinamento alla lingua francese, se si scelgono le edizioni originali.

Un ultimo suggerimento: andate a curiosare sul sito dell’autore (www.marioramos.be), e troverete un sacco di curiosità sui suoi libri, proprio attraverso le sue parole.

Quando l’inconscio infantile entrò negli albi illustrati

sendak_nel-paese-dei-mostri-selvaggiMaurice Sendak (USA, 1928-2012), scrittore e illustratore, ha pubblicato quello che è considerato il suo capolavoro (Nel paese dei mostri selvaggi, il cui titolo originale è Where the Wild Things Are) nel 1963. Di sé diceva: «I don’t write for children. I don’t write for adults. I just write.» Come dargli torto? Impossibile, perché è senz’altro vero che la scrittura, i libri, anche quelli etichettati di solito “per bambini”, quando sono scritti bene, parlano a tutti, indipendentemente dall’età.

Ed è così per il suo più noto albo illustrato, Nel paese dei mostri selvaggi (Babalibri, 2011), appunto, che rivoluzionò il mondo dei picture book, sancendo l’ingresso in questo genere narrativo dell’inconscio infantile. Il suo libro contribuì in modo decisivo a rompere gli schemi tradizionali della letteratura per l’infanzia: non più storie solamente edificanti, con insegnamenti morali espliciti, il più delle volte tese a dimostrare che i comportamenti “cattivi” vanno incontro a punizioni e quelli “buoni” ai giusti premi, ma storie “divergenti”, in cui i protagonisti fanno ciò che non bisognerebbe fare e anche attraverso la trasgressione arrivano a crescere.

Il protagonista del libro è Max, un ragazzino che ne combina tutti i colori, fino a rivoltarsi contro la madre, che gli infligge la classica punizione dell’“A letto senza cena!”. Ma è proprio da questa punizione che Max parte per un viaggio immaginario che dalla sua cameretta chiusa e desolata lo porta in un mondo aperto e trasgressivo, in cui diventa il re dei mostri selvaggi, creature affamate e demoniache che, come lui, ne combinano di tutti i colori. Per poi avvertire la nostalgia di casa, e iniziare un lento cammino a ritroso, che lo riporta nella sua cameretta dove, ora, aleggia nell’aria un buon profumo di cibo. Un vero percorso di crescita che si compie nello spazio onirico di una notte, e che viene magistralmente raccontato dall’arte di Sendak, che combina perfettamente il testo alle immagini: si pensi ai disegni dapprima racchiusi in riquadri (quando Max è “recluso” in camera), e poi “esplosi” sulle due pagine, senza testo, nel momento in cui il bambino, divenuto re di questo mondo onirico, scatena la ridda selvaggia e balla danze sfrenate, liberatorie e bestiali insieme ai mostri che lo venerano appunto come il loro sovrano.

Un testo affascinante, che non ha smesso di parlare neppure oggi, a cinquant’anni dalla sua prima edizione, e che si presta ad accese discussioni in classe sulle paure segrete dei bambini e sulle loro piccole e grandi trasgressioni.

Cliccando qui, è possibile scaricare un’attività didattica per la scuola dell’infanzia e la scuola primaria.