Dalla rubrica Libri sui banchi del «Corriere del Ticino» (27.07.2015, p. 23):
Il dizionario De Mauro spiega l’uso sostantivato della parola “diverso” in questo modo: “chi per caratteristiche o comportamenti differisce, o secondo stereotipi si crede che differisca, da ciò che si considera normale”. La definizione è chiara, ma il problema è tutt’altro che risolto: per applicare quest’etichetta a qualcuno, infatti, bisognerebbe determinare in modo univoco ciò che è “normale”. Un’impresa votata all’insuccesso, statene certi. Infatti, si può differire dalla presunta normalità in almeno un milione di modi: si è diversi dagli altri per aspetto fisico, per colore della pelle, per taglio dei capelli, per gusti, per abiti indossati, per passioni, per abilità, per manie e ossessioni, per talento e per carattere. Potremmo anche dire che è normale essere diversi, in fondo.
Ma la definizione del vocabolario, con il termine “stereotipi”, ci dà un indizio in più: stereotipo è ogni “modello ricorrente e convenzionale di comportamento, discorso, pensiero” e, ancora, ogni “opinione precostituita, non acquisita sulla base di un’esperienza diretta e scarsamente suscettibile di modifica”. È proprio qui il nocciolo della questione: il concetto di diversità nasce insieme al costituirsi degli stereotipi, che non preesistono all’individuo; è la società in cui ci troviamo immersi che li determina e poi li trasmette. Così li imparano (loro malgrado) anche i bambini, e sradicarli è impresa ardua. Già, perché i bambini sono naturalmente sintonizzati sulla presunta diversità: non ne restano scandalizzati, quando non hanno ancora subito la standardizzazione degli stereotipi duri a morire. Noi adulti, invece, a seconda dei punti di vista da cui partiamo, possiamo scandalizzarci se vediamo due uomini passeggiare mano nella mano, una donna coperta da un burka, un maestro di scuola con piercing ovunque, o una famiglia di sole donne; oppure possiamo sentirci imbarazzati se dobbiamo in qualche modo interagire con una persona “diversamente abile”, come si usa dire. Èuna questione di educazione, direte voi. E di stereotipi, appunto.
Per fortuna, come spesso capita, i libri ci vengono in aiuto. Alcuni di essi sono valigette del pronto soccorso contro pregiudizi e stereotipi, per ricordarci di non aver paura di chi non è come noi. E con i bambini il loro compito di soccorritori è ancora più semplice, proprio perché è più facile scalzare gli stereotipi “freschi” che quelli stantii, o prevenirne l’insorgenza. Nelle prossime tre puntate di “Libri sui banchi”, tre coppie di studenti del DFA ci parleranno di libri che affrontano alcune facce della diversità: un’amicizia apparentemente “problematica” (Ernest e Celestine di Pennac), lo scoglio di un aspetto fisico non proprio “invitante” (Voglio un abbraccio di John A. Rowe), il rovesciamento dello stereotipo in base al quale le streghe dovrebbero sempre essere brutte e fare paura (Streghetta mia di Bianca Pitzorno). E gli albi illustrati offrono molte variazioni sul tema: ad esempio, fanno riflettere sul diverso concetto di famiglia che si sta imponendo ai nostri tempi (Piccolo uovo di Francesca Pardi e Altan, ed. Lo Stampatello), oppure parlano di pipistrelli che dormono dritti in piedi e non a testa in giù (Io non sono come gli altri di Janik Coat, Margherita Edizioni), oppure ci fanno capire che la cosa più importante è sempre ciò che ci rende unici (La cosa più importante di Antonella Abbatiello, ed. Fatatrac).
Libri che vale la pena di sfogliare, per sentirsi normalmente diversi e contenti di esserlo.
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